Articolo da “Corriere della Sera” del 16.06.2013
ARTE AFRICANA CONTEMPORANEA
Strani giochi della storia. Si sta ripetendo oggi quel che era già accaduto un secolo fa. Il primo quindicennio del Novecento era stato segnato dalla scoperta delle sculture negre: che erano state amate, studiate, collezionate e reinventate dai pittori cubisti, i quali, anche sedotti dal mito del “buon selvaggio”, avevano avvertito la necessità di appellarsi a un’espressività incorrotta. In loro, potremmo dire con le parole di Gombrich, vi sono nostalgia per l’infanzia e per la giovinezza e “desiderio di ritrovare un’epoca passata o terre lontane: più primitive eppure più spensierate, più innocenti della nostra condizione presente”.
Sentimenti analoghi sono alla base dell’attuale attenzione (speculazione?) di critici, mercanti, galleristi e direttori di musei nei confronti dell’arte dell’ “altro mondo”. In questo caso, però, non si tratta di autori anonimi, creatori di feticci inquietanti e di maschere misteriose, ma di personalità con identità precise. La più recente consacrazione è avvenuta all’ultima Biennale di Venezia: il Leone d’oro è stato assegnato al Padiglione dell’Angola. All’interno di Palazzo Cini, Edson Chagas ha ordinato una campionatura di oggetti abbandonati della città di Luanda. Un archivio di tracce minime, che sono state fotografate e stampate in più esemplari, poi assemblati in colonne di carta: ogni visitatore ha la possibilità di portare via un “foglio”, per comporre la mappa di una Luanda immaginaria.
Un intervento dal valore sociologico-politico. Che, tuttavia, costituisce un’eccezione nel panorama dell’arte del Continente Nero (analizzato da Jean-Loup Amselle in L’arte africana contemporanea). Un paesaggio caratterizzato da spinte e da controspinte: da aperture verso il mondo occidentale e da ripiegamenti. Da un lato, il bisogno di porsi in dialogo con le neo-avanguardie europee e statunitensi. Dall’altro lato, la necessità di non recidere i ponti con le radici. L’interesse per il piano formale. E una sensibilità etnico-antropologica. Tratto comune: la mancanza di tensione civile. E, insieme, l’indifferenza alla bellezza. E l’intenzione di dar vita a immagini concepite, ha ricordato Frank Willet, come strumento per “curare, guarire, istruire, generare maledizioni oppure far guarire”.
Queste oscillazioni sono emerse in importanti mostre. Da Magiciens de
In particolare, è possibile individuare due tendenze prevalenti: il neo-tribalismo e il gloclalismo.
I neo-tribali: come Mikidadi Bush, Seni Camara, John Goba, George Lilanga, Sarenco. Sono artisti di diverse generazioni che tendono a riproporre, in un’ottica contemporanea, le qualità della statuaria negra “classica” (tanto ammirata dal circolo cubista). Non eseguono ritratti veristici. Pur attenti a stilizzare le anatomie e a salvaguardare la ieraticità delle posture, la verticalità dei corpi e la staticità dei gesti, prediligono le asimmetrie calcolate. I loro feticci hanno irregolarità fisiognomiche e forme inconsuete. Non temono eccessi, metamorfosi, trasformazioni. Talvolta, si consegnano a un lirismo ingenuo e selvaggio. Altre volte, indulgono in un’ironia che lambisce la dissacrazione. Praticano il meticciato, l’ibridazione di elementi. Strategia ricorrente è il bricolage: con abilità artigianale, assumono oggetti di uso quotidiano, e li sottopongono a una conversione magica. Il loro è un realismo visionario e assurdo, lontano però dal concettualismo proprio dei totem che avevano influenzato Picasso e i suoi amici. Illuminante l’opera della senegalese Seni Camara (che era stata elogiata da Louise Bourgeois). Sapiente nel modellare la terracotta, Seni Camara scolpisce imponenti divinità, pronte ad allattamenti multipli. Dee che, nel richiamarsi alle mitologie dei Diola, sembrano assumere anche intuizioni del surrealismo, conducendo verso i territori dell’onirico.
Su un fronte opposto incontriamo i glocal: come Esther Mahlangu, Margaret Majo, David Ocheng, Cheri Samba e Kivuthi Mbuno. Abili nel saldare memorie arcaiche e fascinazioni postmoderniste, questi autori recuperano echi della statuaria primitiva e, al tempo stesso, guardano alle figurazioni della Pop Art, del graffitismo e della transavanguardia. Mescolano neo-primitivismo e curiosità per la civiltà di massa. In molti casi, valicano i confini del kitsch.
Tra questi due poli si situa l’esperienza dei fotografi, i quali spesso vengono considerati addirittura come stregoni, impegnati a coinvolgere i loro modelli in strane ritualità. Si pensi al senegalese Ndiaye Dago, il quale sa coniugare con maestria memoria e sperimentazione. Dietro le sue riprese, c’è una lunga preparazione. Si allestisce un piccolo set, sul quale si dispongono donne di colore, la cui pelle è cosparsa di strati di argilla. Nel corso di lunghe performance, le varie “attrici” si abbracciano, danzano. Quasi una liturgia dionisiaca. Il nudo non ha nulla di provocatorio, ma rivela una plasticità primaria. I corpi sono trattati come sculture lignee. La donna si fa “femme Terre”.
E, tuttavia, al di là di queste distinzioni, l’arte africana di oggi resta un enigma indecifrabile: le ragioni poetico-antropologiche sottese a tante anamorfosi ci sfuggono ancora. Perché, in fondo, l’Africa nera, per noi, rimane un grande mistero. Insondabile. Alberto Moravia scriveva: “Io sono affascinato dalla bellezza dell’Africa e per bellezza (…) intendo (…) qualcosa di inspiegabile, di misterioso, di indicibile che si direbbe aleggia sul continente nero allo stesso modo dell’anima secondo i greci, cioè un qualche cosa di superficiale e di esterno e appunto per questo affascinante per la sensibilità che è il mezzo privilegiato di ogni visione estetica”.
vincenzo trione